Attesa

Fuori dai bordi

Tbilisi

Accomodati se vuoi.
Ti assicuro che la sedia è morbida.

Non passa mai nessuno: vieni, riposati un attimo. Sarai stanco dopo tutta la salita.

Sei fortunato, ora c’è anche ombra. Lo sai che la sera, qui al numero 18, tira forte il vento?

La città illuminata è uno spettacolo che non puoi perderti. Potresti aspettare il buio con me. Sederti qui come faccio io ogni giorno. La sedia è attaccata al muro, così non me la porta via nessuno.

E se piove?, ti starai chiedendo.

Tranquillo, ho pensato a tutto quanto, c’è anche un ombrello. Bianco, proprio come piace a te.

Quindi arrivi? Ti fermi un po’?

Io sono sempre qui ad aspettarti.

Doors

Fuori dai bordi

Photo by @nat.klimenko

La prima l’ho aperta senza nemmeno pensarci: una porta vecchia, tutta rovinata agli angoli. Sembrava sul punto di sgretolarsi da un momento all’altro. L’ho spinta lentamente e sono entrato. La stanza era luminosa, le pareti verdi e azzurre, il soffitto altissimo a vetri. Era bella come un giardino, ma non mi convinceva del tutto. Sono uscito veloce, lasciando la porta aperta alle mie spalle.

Sono andato avanti lungo il corridoio e ho aperto la seconda, anche questa senza fretta. Ho girato intorno alla stanza: tra quelle pareti color fuoco, pareva di essere nel cratere di un vulcano. Bella; ma di nuovo non mi convinceva. Troppa energia, il rosso e l’arancio non mi sono mai piaciuti.

E così è stato per la terza, la quarta, la quinta, la decima; andavo avanti una per volta, trovando sempre un dettaglio sbagliato che mi faceva abbandonare la stanza.

Eccomi di fronte alla trentaduesima. Ormai le porte le sfondo con forza, per paura che non si aprano. Spero sia la volta buona, ma come sempre è peggio delle precedenti: quattro pareti strette, uno spazio vuoto e senza luce.

Potrei tornare indietro alla prima stanza, a quel giardino meraviglioso, ma se la trentatreesima fosse quella giusta?

Cammino oltre, e per chissà quante altre porte. 

[Questa storia è stata pubblicata per la prima volta su BasiclyMag]

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I opened the first one without even thinking: an old door, ruined at the edges. It seemed about to crumble at any moment. I pushed it slowly and came in. The room was bright, green and blue walls, a high glass ceiling. It was as beautiful as a garden, but I wasn’t completely convinced. I came out of it quickly, leaving the door open behind me.

I walked along the corridor and softly opened the second one. I wandered around the room: among these flame-colored walls, I felt like I was in a crater. Beautiful; but still, it didn’t entirely convince me. Too much energy; I never really liked red and orange.

And it happened the same with the third, the fourth, the fifth, the tenth door; I kept going on, always finding something wrong that made me leave the room.

I am now in front of the thirty-second one. I almost break down the last doors because I fear they won’t open. I hope this is the right one, but it’s actually worse than the previous ones, as always: a narrow space, empty and dark.

I know I could go back to the first door, to that marvellous garden, but what if thirty-third is the right one?

I keep walking, and who knows for how many doors.

Il negozio di Aarav | Aarav’s shop

Fuori dai bordi

Pushkar, India

Aarav me li indica veloce. Io mi avvicino da dietro, senza fare rumore. Lei ha i capelli biondissimi e lui uno strano cappello colorato che riconoscerei fra mille. È la sesta coppia di turisti della giornata.

Li raggiungo e mi metto a camminare al loro fianco.

«Hello! Where are you from?»

«Italy» risponde lei. Lui continua a camminare come se non esistessi.

Dico tutte le frasi in italiano che Aarav mi ha insegnato: «Roma, Milano, siete sposati, quanto tempo in India.» Capisco poco niente delle loro risposte ma sorrido e annuisco.

«Loro vogliono vedere i bambini sorridere» mi dice Aarav, e io sorrido sempre. Di solito funziona.

«Poi venite al negozio di mio fratello, business di famiglia, tappeti fatti a mano. Tessuti preziosi.» Adesso la guardo dritto negli occhi. Lui vorrebbe mandarmi via con un calcio, lo sento, ma non dice nulla. Lei non sa che fare.

«Sì, vediamo.» Rispondono tutti così. Poi pagano il biglietto e spariscono dentro il tempio. Io li aspetto qui fuori all’ombra, vicino agli autisti di risciò.

Eccoli di ritorno. Speravano di non ritrovarmi al varco, e invece sono qui. «Aspettali sempre, non sapranno dire di no due volte”. Chiedo se il tempio è piaciuto, lei risponde che sì, è stato bello. Poi li porto dritti al negozio di Aarav.

«Questo mio fratello, Aarav.»

Ora devo farmi da parte, lasciare che sia Aarav a parlare. Come sempre gli fa vedere i tappetti più grandi, poi passa a quelli più piccoli, fino ad arrivare a quelli quadrati che piegati occupano “quanto una bottiglia d’acqua”. Lui resta tutto il tempo in un angolo, nascosto sotto il suo cappellino. Lei annuisce, i capelli biondissimi si muovono da tutte le parti: forse come me non sta capendo nulla di quel che dice Aarav. Ogni tanto mi guarda e allora io le sorrido. Devo sorridere, sempre. Alla fine lo compra per 600 rupie, mi saluta ed escono dal negozio. Da lontano sembra proprio che stia stringendo una bottiglia colorata tra le mani.

Aarav mi dà 100 rupie e mi manda via. Per oggi ho finito.

Corro al mercato. Compro riso, pollo e laccha parata, tutto per 60 rupie. Abbiamo da mangiare anche stasera. Arrivo da mio fratello Ravi con il fiatone. È lì che mi aspetta seduto vicino alla nostra bicicletta. Mi vede e sorride: possiamo finalmente mangiare.

Aarav quickly points at them. I sneak up. She has really blond hair and he has a strange colorful hat that I could recognise among a thousand. It’s the sixth tourist couple of the day.
«Hello! Where are you from?»
«Italy» she says. He keeps walking as if I don’t exist.
I say all the Italian sentences that Aarav taught me. «Roma, Milano, you married, how long in India.» I hardly understand anything she says but I smile and nod.
«They want to see children smiling» Aarav says, so I keep smiling. It usually works.
«Later come at my brother’s shop, family business, handmade carpets.» Now I look her straight in the eye. He’d love to kick me away, but he says nothing. She doesn’t know what to do.
«We’ll see.» They all give the same answer. Then they buy the entry ticket and disappear behind the temple. I wait for them right here in the shadow, next to the rickshaws.
They’re back. They were hoping not to see me, but here I am. «Always wait for them, they won’t say no twice.» I ask them if they like the temple, she says yes, it was nice. Then I take them straight to Aarav’s shop. «This is my brother, Aarav.» Now I have to back off, let Aarav talk. As usual, he starts showing them the biggest carpets, then the smaller ones, and in the end he picks the squared ones; those, if folded, can become as small as a bottle of water. The guy stays in a corner the whole time, hidden under his hat. She keeps nodding, her blond hair moves everywhere: perhaps she’s not understanding a word of what Aarav says. Sometimes she looks at me, so I smile back. I have to smile, always. In the end, she buys a small carpet for 600 rupies, waves goodbye and they leave the shop. From afar it seems that she’s really holding a colorful bottle of water.
Aarav gives me 100 rupies and sends me away. I’m done for today.
I run to the market. I buy rice, chicken and laccha parata, all for 60 rupies. We have some food for dinner. When I see my brother I’m out of breath. He’s waiting for me, next to our bike. He sees me and smiles: finally we can eat.
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Silenzio a Shirvanshah

Fuori dai bordi

Palazzo degli Shirvanshah, Baku

Tempo fa era tutto più semplice: il palazzo degli Shirvanshah era spesso vuoto e poco importava se restava qualche foglia o carta fuori posto. Ora i turisti arrivano mattina e pomeriggio, invadono le mura, zompano da un punto all’altro come cavallette. Non smettono mai di parlare in tutte quelle lingue che non conosco. Ci provano pure a farmi delle domande, ma non so proprio come rispondere. Le loro voci stancano più del lavoro. Spesso sono pure nei piedi, con quella loro mania di fare fotografie.

Meno male che questo cortile è un po’ nascosto. Si passa per una scalinata stretta che non si nota facilmente. A quest’ora il sole è troppo forte per loro. Posso sedermi su questa panchina, guardare la fontana, prendere fiato e ombra.
Quando sento una voce, mi alzo, giro le spalle e mi faccio più stretta che posso. Appena vanno via torno a sedermi. Torna il silenzio.

L’incontro mancato a Kartlis Deda

Fuori dai bordi

Kartlis Deda, Tbilisi

Ho perso il filo di nuovo. Sarà dieci minuti che mi ritrovo a leggere la stessa identica frase. È che non posso crederci che non si sia accorto di me, che non mi abbia riconosciuta. Si è seduto al mio fianco come se niente fosse. E adesso se ne sta lì con il cellulare in mano, manco ha alzato lo sguardo una volta. Forse davvero non mi ha vista. Ma il panorama che ha davanti – quello non può non averlo notato. Perché sei venuto fin quassù se poi hai solo occhi per il tuo telefono?
O forse mi ha visto, e sta nascondendo la testa nello schermo per l’imbarazzo. Proprio come io la nascondo nelle pagine di questo libro. A proposito, dov’è che ero rimasta?