Un’altra sigaretta? | One more cigarette?

Fuori dai bordi

«Un’altra sigaretta?»

La gola brucia. Vorrei un bicchiere d’acqua.
Casualmente avevo un accendino, è di Marta; anche le sigarette non sono mie, le ha lasciate sul tavolo prima di correre via.

E così ci siamo ritrovati a fumare una sigaretta dopo l’altra, prima al bar, poi appoggiati al muro di questa vecchia casa.

Lui fuma come un attore e anche la sua vita sembra un film. Io che non ho mai niente da raccontare mi rifugio in questa nuvola di fumo.
Fumo una vita non mia. Brucia tra le dita, veloce, non riesco a starci dietro.

«Un’altra sigaretta, Marta?»

Lo so, ho mentito. Ma non mi avrebbe mai guardato così se non fosse per questa sigaretta.

Sì, un’altra sigaretta.

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«One more cigarette?»

My throat burns. I want a glass of water.

I happened to have a lighter, it’s Marta’s. Also the cigarettes are not mine, she forgot them on the table before heading off.

And so we’ve found ourselves smoking cigarettes at the bar, then leaned against the wall of this old house.

He smokes like an actor. Even his life feels like a film. As usual, I have nothing to say and I shelter behind this cloud of smoke. I smoke somebody else’s life. It burns quickly through my fingers, I can’t keep it up.

«One more cigarette, Marta?»

I know, I lied. But he would have never looked at me if I hadn’t had a cigarette.

Yes, one more.

Sui tetti di Bikaner

Fuori dai bordi

Bikaner, India

Incontriamoci sui tetti.
Le case sono rosse, rosa, lillà: sembra un campo di fiori. Ti dimenticherai di essere in città. Possiamo giocare a quello che vuoi, sai? Prendi la palla, ma non piangere se poi cade. Possiamo anche ballare, basta che stai attento a non avvicinarti troppo ai bordi.

Possiamo essere chi vogliamo qui sopra. Più leggeri del vento.

Incontriamoci sui tetti, ti prego.

La danza della trottola

Fuori dai bordi

Calle de la Ronda, Quito

Ruota veloce, segue il proprio ritmo, accelera senza correre. I colori si liberano dai bordi, si sciolgono e si intrecciano come nuvole in cielo. La danza perfetta. A ogni giro perde un pensiero, una storia, un ricordo. Nessuno riesce a staccarle gli occhi di dosso.
Poi arriva un tremolio leggero, quasi impercettibile. Si rialza fiera e riprende a ruotare, ma gli sguardi sono più severi, pronti alla caduta. Qualcuno si alza e abbandona.
La danza continua; poi una seconda vibrazione, questa volta più forte, la spinge tutta a destra. I più se ne vanno, scuotono la testa, sanno che non reggerà ancora molto: quindi, che senso ha restare?
Ruota, i movimenti sono ormai più rigidi. Il volto contratto.
Una terza vibrazione le fa toccare terra, toc, sbanda e perde il controllo.
Un tonfo, poi silenzio. Non è rimasto più nessuno.
Si affloscia pesante sul palco. I colori e i pensieri le ricadono addosso.
È ora di abbandonare la scena.
Avanti il prossimo.

Occhi di diavolo

Fuori dai bordi

Via Lascaris, Torino

Com’è il mondo al contrario?

Suole di scarpe, sottane bianche, gambe senza busto, mani senza braccia.
Camminano veloci su un paio di occhi neri, immobili.

Un cane guarda a terra, abbaia e tira il padrone.
Un bambino si china, infila il dito nella fessura.
Un altro avvicina la bocca.
«Com’è il mondo al contrario?» sussurra.
Poi appoggia l’orecchio al marciapiede.

Ma gli occhi di via Lascaris non rispondono.
Aspettano.
Suole di scarpe, sottane bianche, gambe senza busto, mani senza braccia.
Aspettano che il mondo si giri al contrario.

Vita di vetro | Glass life

Fuori dai bordi

Plaza Omotesando Harajuku, Tokyo

Tokyu Plaza Omotesando Harajuku,
Prima scala,
Immobile nel solito punto.

Passa una ragazza con le scarpe rosse come Dorothy. Si muove leggera e pure a me sembra di volare. Un’ombra bianca mi sfiora la mano, camminiamo insieme: un passo, due passi. Poi arriva un ragazzo vestito di giallo, ride di gusto. In un attimo mi ritrovo con la sua maglietta mentre lui sparisce con la mia giacca grigia. Me la presta una, due, mille volte lassù. Ma non è mai uguale, sai?

Ieri sono rimasto un’ora su queste scale. Immobile, mentre in quel vetro indossavo mille vite diverse. Mi sembra di averti incrociato, per un attimo. Portavi una gonna bianca, giusto? O forse faccio confusione, ieri avevi un vestito a righe.

Qualcuno mi urta e crepo in mille pezzi.
La giacca grigia, i piedi chiusi nelle scarpe di pelle.
Scendo le scale,
non esisto più.

Tokyu Plaza Omotesando Harajuku,
Prima scala,
Immobile nel solito punto.
Domani torno.
Tu ci sarai?

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Tokyu Plaza Omotesando Harajuku,
First stair,
Motionless in the exact same spot.

A girl goes by; she’s wearing red shoes like those of Dorothy. She moves lightly and I feel like I’m flying. A white shadow barely touches my hand, we walk together: one step, two steps. Then a guy dressed in yellow. He laughs out loud. In no time I find myself with his yellow t-shirt on, while he disappears with my grey jacket. He lends it to me once, twice, a million time up there. But it’s never the same, you know?

Yesterday I remained here for an hour. Motionless, while on that mirror I was wearing a thousand lives. I think we met, just for a moment. You were wearing a white skirt, right? Or maybe I’m getting confused, you had a striped dress yesterday.

Someone bumps into me. I break into a thousand pieces.
The grey jacket, feet back in leather shoes.
I go down the stairs,
I no longer exist.

Tokyu Plaza Omotesando Harajuku,
First stair,
Motionless in the exact same spot.
Tomorrow I’ll be back.
Will you be there?

Selfie a Ranakpur | Selfie at Ranakpur

Fuori dai bordi

Ranakpur, India

Eccoci al tempio di Ranakpur. Siamo qui per pregare, come ogni anno. Quando ero bambina mia madre prendeva me e mia sorella per mano e ci guidava tra le mille colonne di marmo; ognuna con la propria storia, la propria divinità incisa. Una volta i miei genitori si sono inginocchiati per pregare e io ho cominciato a camminare, saltando solo all’ombra delle colonne, finché li ho persi di vista. Mi sono spaventata a morte nel labirinto di Ranakpur.

Ora che ho quindici anni, le colonne, le loro luci e le loro ombre non mi fanno più paura. So come muovermi nel tempio. Quest’anno per la prima volta mio padre mi ha lasciato indossare il sari rosa. È bellissimo e la gente non smette di guardarmi.

Mi allontano da mia sorella, lei prega ancora con i miei genitori, e trovo un angolo tutto per me. Mi siedo a gambe incrociate. Qualcuno continua a guardarmi da lontano, lo sento.

Mi domando se questo sari mi stia bene per davvero…

Tiro fuori il telefono. Scatto una foto.

Sì, mi sta davvero benissimo.

Ma ho dimenticato come pregare.

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Here we are at Ranakpur Temple. Like every year, we’re here to pray. When I was little, my mum held both our hands tight and led us through thousands of marble pillars. Each of them has its own story, its own goddess. I remember once when my parents bent on their knees to pray, and I started walking around, jumping from the shadow of a pillar to another, until I got lost. I was scared to death in the labyrinth of Ranakpur.

Now that I’m fifteen, the pillars, their lights and their dark shadows don’t scare me anymore. I know how to move around the Temple. This year, for the first time, my father allowed me to wear the pink sari. It’s beautiful and people keep staring at me.

I leave my sister behind, she still prays with my parents, and I find a place just for me. I sit down. Someone is looking at me from afar, I can feel it.
I wonder if I actually look good in this pink sari.
I grab my phone. I take a picture of myself.
Yes, I really look great.
But I forgot how to pray.
.

Peacock feathers

Fuori dai bordi

Udaipur, India

44, 45, 46…
Ora scendo. La salita si fa ripida e io non pedalo più. Non ce la faccio.

Anche oggi non una nuvola a Udaipur. Il sole ci sta bruciando le strade, la terra, le nostre case. Se continua così, ci brucia anche i sorrisi.

Sono quasi le 10. I primi turisti stanno per uscire dal Palazzo. Questo caldo brucia anche il loro di entusiasmo.

“Peacock feathers?”
L’ho imparato per loro. Ma le piume non le vogliono. Sono interessati a me, al mio turbante e alla mia vecchia bicicletta. A volte mi fotografano di nascosto. A volte mi fotografano e basta. Ma non compra niente nessuno.

“Peacock feathers”, ci riprovo.

Camminano oltre, il sudore negli occhi.

Continuo per la mia strada, la bicicletta al fianco come un’ombra, il pedale che mi sbatte sul ginocchio. Non manca tanto al tempio.
Un dolcetto e qualche piuma la porto al Dio Vishnu. Il mio dono, la mia preghiera.
Che trovi un buon partito per la mia bambina.
Che la fortuna assista la mia famiglia.
Prego di vendere qualcuna di queste piume. Ne ho davvero bisogno, Vishnu.
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44, 45, 46…
Now I get off. It’s too steep and I can’t cycle anymore. I can’t do it.
Another day without clouds here in Udaipur. The sun is burning our streets, the earth, our homes. It’ll soon burn our smiles.
It’s almost 10 am. The first tourists are leaving the Palace. This heat also burns their enthusiasm.
“Peacock feathers?”
I learnt these words for them. But they never want my feathers. They’re interested in me, in my pagri and in my old bike. Sometimes they secretly take pictures of me. Sometimes they just take them. But nobody buys anything.
“Peacock feathers?”, I try again.
They walk by, sweat in their eyes.
I keep walking, the bike on my side like a shadow, the pedal that bumps into my knee. The temple is quite close.
I’ll bring some sweets and some feathers to Vishnu. My gift, my pray.
That I will find a good husband for my little daughter.
That luck will help my family.
I pray to sell some of these feathers. I really need this, Vishnu.

Untitled (Nothing to do in Suburbia) | Bill Owens

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Untitled (Nothing to do in Suburbia) | ©Bill Owens

Io e Jane siamo migliori amiche da sempre. Siamo cresciute insieme. Le nostre mamme sono amiche da quando sono piccole, e i nostri papà erano in classe insieme al College. Non so se si siano sposati prima i miei genitori o quelli di Jane. Comunque le nostre mamme sono rimaste incinta praticamente nello stesso momento. Io sono nata il 17 di giugno. Due giorni dopo è nata Jane.

Siamo in classe insieme, facciamo i compiti insieme, guardiamo la televisione insieme. Quando eravamo bambine giocavamo un pomeriggio nel mio giardino e uno nel suo. Adesso in cortile ci stiamo meno. Preferiamo prendere le nostre biciclette – la mia è bianca, quella di Jane è nera – e girovagare per la città.

Per tanto tempo ci hanno chiesto se eravamo sorelle o gemelle. Noi rispondevamo di sì e tutti ci credevano. Eravamo alte uguali e avevamo lo stesso colore di capelli.

Poi Jane è diventata mora ed è cresciuta all’improvviso.
Nessuno ci chiede più se siamo sorelle. Tutti credono che Jane sia più grande.

Magari mi faccio mora. Speriamo di crescere veloce, così io e Jane torniamo le sorelle di sempre.

Untitled (New York), 1972 | Helen Levitt

Art Stories

Untitled (New York), 1972 | ©Helen Levitt

Emily: «Dici che ci hanno visto andare di qui?»

Jamie: «Non credo, erano parecchio indietro.»

Emily: «Li vedi? Arrivano o no?»

Due secondi di silenzio. Jamie riprende fiato.

Jamie: «Io non vedo nessuno.»

Emily: «Oddio, cosa facciamo se arrivano?»

Rebecca: «Shhh, stai zitta Emily.»

Emily: «Secondo me adesso arrivano, ci prendono e ci portano via tutto. Jamie, li vedi?»

Jamie: «Mmm, io non vedo niente. Se però non chiudi quella bocca finisce che ci sentono e perdiamo tutto per davvero.»

Rebecca: «Jamie, nascondo la refurtiva sotto il cuscino. Così se arrivano almeno non lo trovano. Datemi una mano, voi due!»

Emily: «Ma allora è vero che arrivano! Adesso ci catturano tutti e siamo finiti!»