Vita di vetro | Glass life

Fuori dai bordi

Plaza Omotesando Harajuku, Tokyo

Tokyu Plaza Omotesando Harajuku,
Prima scala,
Immobile nel solito punto.

Passa una ragazza con le scarpe rosse come Dorothy. Si muove leggera e pure a me sembra di volare. Un’ombra bianca mi sfiora la mano, camminiamo insieme: un passo, due passi. Poi arriva un ragazzo vestito di giallo, ride di gusto. In un attimo mi ritrovo con la sua maglietta mentre lui sparisce con la mia giacca grigia. Me la presta una, due, mille volte lassù. Ma non è mai uguale, sai?

Ieri sono rimasto un’ora su queste scale. Immobile, mentre in quel vetro indossavo mille vite diverse. Mi sembra di averti incrociato, per un attimo. Portavi una gonna bianca, giusto? O forse faccio confusione, ieri avevi un vestito a righe.

Qualcuno mi urta e crepo in mille pezzi.
La giacca grigia, i piedi chiusi nelle scarpe di pelle.
Scendo le scale,
non esisto più.

Tokyu Plaza Omotesando Harajuku,
Prima scala,
Immobile nel solito punto.
Domani torno.
Tu ci sarai?

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Tokyu Plaza Omotesando Harajuku,
First stair,
Motionless in the exact same spot.

A girl goes by; she’s wearing red shoes like those of Dorothy. She moves lightly and I feel like I’m flying. A white shadow barely touches my hand, we walk together: one step, two steps. Then a guy dressed in yellow. He laughs out loud. In no time I find myself with his yellow t-shirt on, while he disappears with my grey jacket. He lends it to me once, twice, a million time up there. But it’s never the same, you know?

Yesterday I remained here for an hour. Motionless, while on that mirror I was wearing a thousand lives. I think we met, just for a moment. You were wearing a white skirt, right? Or maybe I’m getting confused, you had a striped dress yesterday.

Someone bumps into me. I break into a thousand pieces.
The grey jacket, feet back in leather shoes.
I go down the stairs,
I no longer exist.

Tokyu Plaza Omotesando Harajuku,
First stair,
Motionless in the exact same spot.
Tomorrow I’ll be back.
Will you be there?

Selfie a Ranakpur | Selfie at Ranakpur

Fuori dai bordi

Ranakpur, India

Eccoci al tempio di Ranakpur. Siamo qui per pregare, come ogni anno. Quando ero bambina mia madre prendeva me e mia sorella per mano e ci guidava tra le mille colonne di marmo; ognuna con la propria storia, la propria divinità incisa. Una volta i miei genitori si sono inginocchiati per pregare e io ho cominciato a camminare, saltando solo all’ombra delle colonne, finché li ho persi di vista. Mi sono spaventata a morte nel labirinto di Ranakpur.

Ora che ho quindici anni, le colonne, le loro luci e le loro ombre non mi fanno più paura. So come muovermi nel tempio. Quest’anno per la prima volta mio padre mi ha lasciato indossare il sari rosa. È bellissimo e la gente non smette di guardarmi.

Mi allontano da mia sorella, lei prega ancora con i miei genitori, e trovo un angolo tutto per me. Mi siedo a gambe incrociate. Qualcuno continua a guardarmi da lontano, lo sento.

Mi domando se questo sari mi stia bene per davvero…

Tiro fuori il telefono. Scatto una foto.

Sì, mi sta davvero benissimo.

Ma ho dimenticato come pregare.

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Here we are at Ranakpur Temple. Like every year, we’re here to pray. When I was little, my mum held both our hands tight and led us through thousands of marble pillars. Each of them has its own story, its own goddess. I remember once when my parents bent on their knees to pray, and I started walking around, jumping from the shadow of a pillar to another, until I got lost. I was scared to death in the labyrinth of Ranakpur.

Now that I’m fifteen, the pillars, their lights and their dark shadows don’t scare me anymore. I know how to move around the Temple. This year, for the first time, my father allowed me to wear the pink sari. It’s beautiful and people keep staring at me.

I leave my sister behind, she still prays with my parents, and I find a place just for me. I sit down. Someone is looking at me from afar, I can feel it.
I wonder if I actually look good in this pink sari.
I grab my phone. I take a picture of myself.
Yes, I really look great.
But I forgot how to pray.
.

Untitled (Nothing to do in Suburbia) | Bill Owens

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Untitled (Nothing to do in Suburbia) | ©Bill Owens

Io e Jane siamo migliori amiche da sempre. Siamo cresciute insieme. Le nostre mamme sono amiche da quando sono piccole, e i nostri papà erano in classe insieme al College. Non so se si siano sposati prima i miei genitori o quelli di Jane. Comunque le nostre mamme sono rimaste incinta praticamente nello stesso momento. Io sono nata il 17 di giugno. Due giorni dopo è nata Jane.

Siamo in classe insieme, facciamo i compiti insieme, guardiamo la televisione insieme. Quando eravamo bambine giocavamo un pomeriggio nel mio giardino e uno nel suo. Adesso in cortile ci stiamo meno. Preferiamo prendere le nostre biciclette – la mia è bianca, quella di Jane è nera – e girovagare per la città.

Per tanto tempo ci hanno chiesto se eravamo sorelle o gemelle. Noi rispondevamo di sì e tutti ci credevano. Eravamo alte uguali e avevamo lo stesso colore di capelli.

Poi Jane è diventata mora ed è cresciuta all’improvviso.
Nessuno ci chiede più se siamo sorelle. Tutti credono che Jane sia più grande.

Magari mi faccio mora. Speriamo di crescere veloce, così io e Jane torniamo le sorelle di sempre.

Untitled (New York), 1972 | Helen Levitt

Art Stories

Untitled (New York), 1972 | ©Helen Levitt

Emily: «Dici che ci hanno visto andare di qui?»

Jamie: «Non credo, erano parecchio indietro.»

Emily: «Li vedi? Arrivano o no?»

Due secondi di silenzio. Jamie riprende fiato.

Jamie: «Io non vedo nessuno.»

Emily: «Oddio, cosa facciamo se arrivano?»

Rebecca: «Shhh, stai zitta Emily.»

Emily: «Secondo me adesso arrivano, ci prendono e ci portano via tutto. Jamie, li vedi?»

Jamie: «Mmm, io non vedo niente. Se però non chiudi quella bocca finisce che ci sentono e perdiamo tutto per davvero.»

Rebecca: «Jamie, nascondo la refurtiva sotto il cuscino. Così se arrivano almeno non lo trovano. Datemi una mano, voi due!»

Emily: «Ma allora è vero che arrivano! Adesso ci catturano tutti e siamo finiti!»

Valerie crying, Paris | Nan Goldin

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Valerie crying, Paris | ©Nan Goldin

Ancora non riesco a crederci. Sono corsa via senza nemmeno salutarlo. Avresti dovuto vedere la faccia di Marcel: pietrificato. Poi ha iniziato a urlare «Valerie! Torna indietro! Valerie!» Se mi avesse rincorso, probabilmente saremmo ancora seduti adesso a quel tavolino. Gli avrei chiesto scusa e sarebbe finita come tutte le altre volte. Ma non mi ha inseguito – figurati, orgoglioso com’è neppure si è alzato dalla sedia.

Ho preso subito un taxi e mi sono fatta portare qui. Avevo proprio bisogno di una doccia calda. Mi sistemerò presto e toglierò il disturbo. Sì, lo so che posso stare tutto il tempo che voglio, grazie, ma non resterò a lungo.

Se Marcel mi vedesse fumare! Gli ho sempre mentito. Non mi andava di litigare anche per questa cosa. Se ti dà fastidio l’odore in casa, dimmelo che la spengo. Guarda il fumo come evapora veloce. È un po’ come le persone, non credi? Ci bruciano la testa e poi evaporano.

Scusami, sto straparlando. È meglio che stia zitta. Finisco la sigaretta e chiudo la persiana. Al buio le cose evaporano ancora più veloce.

Still life with arm | Annika von Hausswolff

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Still life with arm | ©Annika von Hausswolff

«Emma! Dove sei? Emma?»

Ecco, è arrivato mio fratello a cercarmi. Grida il mio nome di continuo, saltellando come un grillo nel prato.

È preoccupato, lo sento dalla voce. Un po’ mi dispiace non alzarmi e rispondergli: «Tommy, sto bene». Penserà che mi sia persa nel bosco, o che sia scivolata su uno dei sassi vicino al ruscello. Quanto si starà maledicendo per non avermi aspettato…

Effettivamente Tommy ha ragione: sono caduta. Non sono sicura come, devo essere inciampata con il piede sinistro su una radice. Se così non fosse, sarei a correre con lui e non qui sdraiata nell’erba.

La verità è che non mi sono fatta niente. Solo mi piace stare quì. Mi ero dimenticata di quanto fosse bello guardare le nuvole in cielo.

Forse dovrei chiamare Tommy e dirgli di sdraiarsi al mio fianco.

«Emma? Dove sei? Emma!»

Aspetto ancora cinque minuti. Poi lo chiamo.